martedì 11 febbraio 2014

Il valore del made in Italy agroalimentare e il suo prezzo

Sono solo parzialmente d'accordo con l'editoriale del grande Alberto Lupini su Italia a Tavola che sostiene la tesi di un prezzo "importante" dei prodotti agroalimentari italiani. E' vero, leggendo tra le righe, Lupini specifica che non è tollerabile il sottocosto del Made in Italy agroalimentare - e su questo sono d'accordo, ma credo che insistendo troppo sul "giusto prezzo", si perda di vista il valore che, per essere tale, deve valere (anche) indipendentemente dalle logiche di mercato, soprattutto in un paese produttore come è l'Italia. Tale obiettivo lo si raggiunge lavorando scientificamente sulle politiche dei costi e sul monitoraggio continuo dei margini, per raggiungere quella che secondo me è la vera logica di mercato per la sopravvivenza e il successo dei prodotti made in Italy: un equilibrato rapporto tra prezzo e qualità. Per realizzare queste politiche di prezzo è quindi necessaria una stretta sinergia tra i ruoli degli acquisti, quelli amministrativi e infine quello di marketing per una valorizzazione sana del prodotto da parte del/dei nostri target ideali. Solo a questo punto saremo sicuri dell'esistenza di un consumatore per i nostri prodotti.

Sappiamo che la straordinaria esperienza agroalimentare italiana che stiamo vivendo da decenni, ha portato l'Italia a insuperati primati mondiali. Tale successo è frutto di fortunati fattori ambientali (una biodiversità agronomica e territoriale ricchissima) e fattori culturali (un patrimonio storico culinario enorme, un mercato di consumatori consapevoli ed esperti). A mio avviso, questo contesto virtuoso ha concorso a creare un valore aggiunto ai nostri prodotti che non possono essere considerati semplici eccellenze da tutelare e da preservare, ma beni alimentari ad alto contenuto etico-gastronomico con un alto valore evangelizzante.

Mi si passi il termine, ma i prodotti sani dell'enogastronomia italiana, bollati o meno da disciplinari, devono fare del bene non solo ai consumatori, ma anche ai metodi e all'ambiente di produzione, quasi un faro per tutte le produzioni alimentari. Rispettando e sostenendo gli adeguati organi di controllo istituzionale, non bisogna credere in un prodotto semplicemente perché costa tanto o perché ha un bollino, ma perché ne conosciamo la storia, i produttori e soprattutto il gusto e il bene che ci fa. Oltre a sostenere la nostra cultura agroalimentare quindi, bisogna superare la logica dei credence goods applicata ai beni alimentari e passare a quella totalizzante degli experience goods perché il bello dei prodotti alimentari è che presuppongono un consumo totale, fino all'assimilazione del prodotto stesso.

Per un equilibrato approfondimento consiglio il testo curato da Fabrizio De Filippis, L'agroalimentare italiano nel commercio mondiale. Specializzazione, competitività e dinamiche.

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